La sera del Sabato nello studio di Tot
(R. M. DE ANGELIS, Giornale d’Italia, Roma, November 1947)
— by R. M. DE ANGELIS
Quando non lo conoscevo, sospettavo che Tot fosse lo pseudonimo di Amerigo, invece é il suo vero cognome, essendo egli nato in Ungheria, non ni ricordo piú in quale cittá, o paese.
Tot fa lo scultore, come certo saprete meglio di me, e gli piacciono molto, almeno sulla creta e sulla carta, le donne fiancute e poppute, attorcigliate in viiuppi di membra, o addirittura abbozzate in metamorfosi lascive.
Tot predilige un ritmo serrato, focoso, tenta di ridurre il corpo umano a enigmatiche e carnali deformazioni, in cui la maschera dei volto ha quasi sempre io stupore stralunato degli idoli.
Altri dirá, al momento giusto, a quale richiamo ubbidisca la scultura di Tot, a noi interessa, almeno per ora, il personaggio, con i capelli quasi d’argento, la fronte e la mascella contratte, la mano dura e pesante che denunzia il contatto della mazza e del martello, del marmo o del legno. Tot é sui quarant’anni e porta un basco nero, balla con il basco in testa, beve, dorme, sempre col basco in testa. Soltano i suoi gatti gli fanno abbandonare il basco: allora il basco fa da nido per il piú piccolo dei cinque gatti, che il nostro amico alleva e nutre con un amore addirittura francescano.
Si balla molto allo studio di Tot, specie il sabato sera, in compagnia dei gatti, delle statue, negri e mulatti e gente di ogni parte e colore del mondo. Si balla e si beve vino caldo, sapientemente drogato con chiodi di garofano, secondo l’uso ungherese.
Ballando e beveno si parla di arti, letteratura, guerra, pace, amore, sport, viaggi: c’é sempre un numero di attrazione, ogni sabato sera, e i nomi grossi e famosi fanno meno impressione accanto alla stufa di coccio che transforma lo stanzone in un forno crematorio in cui é dolce, d’altronde, purificarsi di ogni peccato, o tentazione, o vanita.
Da qualche mese, regina della festa, oltre alla pittrice Eva Fischer, di cui non ammireremo mai abbastanza gli occhi, le mani e la grazia (per tacer dei quadri che, gui non si vedono) é una strana statua in gesso, senza gambe e senza braccia, tutta ventre: infatti appresenta una maternitá. Gli invitati fingono orrore e ripugnanza per questo simbolo, e chiudono gli occhi, come i membri puritani di una giuria invano. La maternitá di gesso, resa con una plastica di una rara violenza, calamita gli occhi e la mente delle donne spaurite: é davvero un idolo, un nume, al quale sará bene presto o tardi sacrificare l’agnello piú grasso se non piú immacolato.
Non é difficile penetrare nello studio di Tot: infatti, la porta é sempre aperta, il sabato sera, e almento tre quarti degli ospiti non sono ststi invitati dal padrone di casa. La gente fa tutte quelle scale per venirsi a riscaldare d’estate, ma sopratutto é ansiosa di gustare il vino caldo che dá alla testa, al terzo sorso, drogato com’é.
A volte, proprio non si respira, per il fumo e il calore, tuttavia nessuno se ne lamenta, anche se la radio si interrompe spesso, e non c’é spazio per ballare, e le donne non trovano, per sedere, nemmeno la schiena di una statua rovesciata. Tot é intento alla sue cuccume e ai suoi bicchieri di terracotta smaltata, nella piccola cucina – fredda come una ghiacciaia quando il vino non canta, penserá Eva Fischer a da bere agli assetati. Di assesati ce n’é sempre un folto stuolo, e le piú resistenti a tracannare son proprio le donne, anzi, piú delicate e gentili sembrano (e sono!), e con piú foga si portano il bicchiere alle belle labbra, al posto del vino ci lasciano il rossetto, ma soltano sul labbro del bicchiere a coppa: casto, castissimo bacio.
Lungo le pareti, o a mezza aria, su casse, tavoli e trespoli, gessi, calchi, tronchi appena sbozzati, libri e gatti: gatti vivi e morti, mummie di gatti e iradiddio di gatti. Anche qualche fotografia s’intende, di modelle o di amiche, di amici e maestri: occio alla bruna in costume da bagno, in procino di toccar l’acqua con la punta del piede... Che accadrá mai? Un incendio a mare?
Per fortuna, proprio accanto alla foto della bagnante incendiaria c’é quella di Picasso che un po’ somiglia a Tot o al quale Tot finirá con l’assomigliare.
I gatti s’infilano come nastri di pelliccia tra le gambe dei ballerini. L’altra sera ci capito una donna sulla cinquantina, rossa di pelle e di vestito, per farsi un’idea del posto. Quando vide che i negri si comportavano come diplomatici, per rappesaglia si ubriacó come un pappagallo: tuttavia al ballo non ebbe miglior fortuna, tanto che Tot finí col sacrificarsi e all’una di notte fece con la poveraccia un bel giro di valzer.
Foste capitali sabato scorso, per esempio, a una certa ora irruppero le ballerine di Caterina Dunham: due negre e una mulata. Ballarono con noi, con molta grazia, e ballando nel riso mostrano il fondo roseo della gola abbagliato dai riflessi al magnesio di centinaja di denti. Parlavano inglese francese e spagnolo: anche la mulatta, nata da madre negra e da padre russo, e ridevano africano, coi denti la gola, il ventre, i fianchi, erano tutti e tre come note musicali e si scioglievano nel ritmo come rame esposto ad alta temperatura, temperatura da danza equatoriale, anzi: subequatoriale.
Tot, anche, ballava, senza basco, ora con l’una ora con l’altra: finivano con l’essere tutti gelosi di quelle bellissime negre, - le donne perché ci vedevano allocchiti, e noi uomini per ragioni troppo facili ad indovinarsi.
(Ora come faccio, a questo punto, a raccogliere le idee e a parlare seriamente delle sculture di Tot? Di certe facce scolpite e logorate che somigliano a ciottoli e a trichechi? Di certi disegni aggressivi, di certi bassorilievi popolati da una folla religiosa ed orante?
Troppo vino caldo, signor Tot. E quei chiodi di garofano, poi! E quelle ballerine negre).
Per fortuna, Eva riusci a far funzionare la radio: sprituals negri, in onore delle ballerine di colore che misero la cerniera alla bocca e caddero in una misteriosa malinconia.
C’era persino una chitarra: facile immaginare i palmizi, il fiume, i coccodrilli nella mota, e una pioggia di stelle grosse come macigni. Invece accadde una cosa straordinaria: le negre si misero a cantare. Sembró, il loro canto, piuttoso una preghiera, era quasi l’alba.