“Pronto… Vi cerca lo Scia di Persia” – L’ultima avventura di Tot

(GHIGO DE CHIARA, Avanti!, Roma, anno LIII, No. 24, Roma, 28 January, 1949, p. 3.)

— by GHIGO DE CHIARA

Lo scultore ungherese rispose qualcosa in trasteverino e riattacò: ma sua maestà lo cercava davvero

Da qualche tempo gli scrittori, gli artisti e i giornalisti romani non si salutano più con i sacramentali « fatti vivo » o « dammi un colpo di telefono »: la nuova formula è « ci vediamo sabato sera da Tot ». E non si tratta d’un modulo convenzionale perchè il sabato sera da Tot ci si incontra per davvero. Dopo cena (ma senza nessun impegno d’orario, perchè all’ultimo piano del n. 7. di via Margutta ti ci puoi arrampicare alle 10 come a mezzanotte), lo scrittore in vena di quattro chiacchiere o il giornalista che voglia allontanarsi dalla redazione tra una edizione e l’altra, sale allo studio di Tot, saluta, se gli va, quelli che incontra per primi, entra in cucina e si serve un tazzone di vino rosso caldo dalla pentola che bolle in continuazione sui fornelli: poi s’accende la pipa e fa un giro tra i vari gruppetti che stanno discorrendo. Dove l’argomento gli va a genio, s’aggrega. Qui non è d’obbligo la conversazione « elevata », come negli altri salotti letterari di Roma: accanto a persone che discutono di linee forme colori, ne trovi altre che si raccontano grasse storielle da caserma. Uomini e donne, anarchici e clericali, romanzieri famosi e giovani cronisti della « nera » si trovano tutto loro agio, un po’ per la virtù tonificarice del vino rosso e molto per la cordialità del padrone di casa.

L’ultima avventura di Tot

Amerigo Tot è ungherese ma sa parlare un trastevereno impeccabile: alto asciutto e atletico, dai suoi grossi polsi da scultore le mani nascono enormi, con le ditta schiacciate e con i segni delle palme sempre mercati da un filo bianco di gesso, quando scoppia a ridere (tutta la strada conosce la ristata da baritono di Tot) i capelli gli piovono sulla fronte e sulle orecchie come se stesse sotto la doccia. A cosa gli servano quelle spalle e quelle braccia lo capite quando gira attorno alla statua abbozzata e ci batte su con le nocche per indovinare le venature della pietra. Se poi vi succede di vederlo modellare una figuretta di creta, pensate « Mamma mia, adesso la schiaccia ».
L’ultima avventura di Amerigo Tot è il suo incontro con lo Scià di Persia. Una mattina andò a rispondere al telefono e si sentì dire « Qui parla il segretario dello Scià ».
« Povero cocco » ripose Tot abituato agli scherzi che si scambiano i « marguttini » « ed io sono Michelangelo ». E riattacò il ricevitore. Ma l’apperecchio trillò ancora « Pronto » disse la solita voce « Sua Maestà l’attende domattina alle sette e mezzo ». Abbiamo già detto che Tot conosce tutte le sfumature del trasteverino: perciò ci risparmiamo di riportare la seconda risposta. Al pomeriggo gli arrivò un invito con bolli, stemmi e ceralcche, e cominciò ed ....e qualche sospetto.
................. un più a doppio petto, il giorno dopo era alla pres..nza dello Scià. Il quale assai affabilimente gli disse che sulla piazza principale di Teheran ci sarebbe voluto un monumento così e così, che doveva rappresentare giorni voleva vedere i bozzetti. Per 48 ore, qiorno e notte, Amerigo restò al tavolo da disegno: lo Scià vide, esaminò e concluse la faccenda. Così Tot in qualche intervallo delle sue mostre che terrà prossimamente a Napoli, ad Asti, a Roma e a Basilica farà un « salto » a Teheran per farsi un’idea del luogo dove collocare il monumento. Al monumento lavorerà in Italia e con maestranze italiane.
Avevamo intenzione di dedicare quest’ultimo capitolo della nostra inchiesta agli artisti stranieri di via Margutta. Ma se proprio non volessiamo far torto a nessuno avremmo bisogno di tropo lungo spazio: perchè a parte Tot e Peikof, « vecchi » della strada, la guerra ha ondotto a via Margutta un plotone di americani che, ottenuti gli studi con buonuscite di mezzo milione, adesso li usano alla stessa maniera di come un ricco dilettante di provincia si servirebbe d’un atelier a Montparnasse: per viverci, cioè, fra oggetti stani e con stravaganti abitudini, per invitarvi gli amici e suscitare le loro invide e (ma solo qualche volta, per buttare giù due pennellate secondo i canoni della maniera più lodata dai critici.
Ma, con gli altri che hanno invaso via Margutta da oziosi ricconi, è arrivato un giovanotto bruno e magro, americano di nascita e pugilese d’origine dalla seria vocazione d’artista e « professionista » nel senso più schietto della parola. Nicolas
Carone, nato nel 17 a New York, vinse nel ‘40 un concorso per una borsa di studio che, ambita da tutti i giovani pittori degli Stati Uniti, gli avrebbe consentito di lavorare a Roma. Ma la guerra troncò i suoi progetti, come i progetti di tanti altri, e Nicolas, presta intanto moglie e avuto un bambino, dovete aspettare fino al ‘47 per trasferirsi in Italia. Ha già esposto a New York ed a Parigi e si prepara ad esporre a Napoli in febbraio. Poco ci è possibile dire della sua pittura perchè è scarso il materiale che ha con sè ma riteniamo senz’altro positivo il fatto che, nell’anno 1949, un artista di istinto felice non si creda già un « arrivato », ma seguiti a frequentare assiduamente musei e pinacoteche.
Un « cottage » americano nel cortile del n. 51
Se dovese capitarvi di passare per via Margutta, non dimenticate di visitare lo studio di Carone nel cortile del n. 51: lo troverete, con la sua piccola famiglia, sistemato in uno di quei cottages da films americani, dove in uno spazio ristretto, mantenuto lindo e sempre nuovo, niente manca di comodità e di eleganza. Nicolas Carone rientrato nella sua terra d’originale ha voluto portarsi dietro un po’ del Paese dove nacque e cominciò a scarabocchiare i quaderni di scuola: il paese dell’infanzia, in cui ciascuno di noi sognò la gloria, magari come caporale dei bersaglieri o come boxeur.
La giornata non finische mai a via Margutta: in tutte le strade questo mondo dove gli uomini lavorano, c’è sempre un’ora nella qualle ci si alza da una sedia o si-abbandona una macchina per andare al cinematografo o a fare all’amore. A via Margutta no: non si accendono a sera, per dare il segnale del riposo. Non significa niente la sera e non significa niente la notte a via Margutta. Come, del resto, il sole non voul dire necessariamente « lavoro ».
Alle prime ore del mattino si riempiono le botteghe degli artigiani: al rumore delle seghe elettriche qualcuno pensa « Ho fatto tardi stanotte: andiamocene a nanna » e qualche altro impreca perchè « quei falegnami maladetti » lo hanno svegliato all’alba.