Amerigo Tot, scultore romano

(MASSIMO GRILLANDI, Strenna dei Romanisti Natale, Roma, 21 April, 1973, p. 215-219.)

— by MASSIMO GRILLANDI

Come gli antichi abitanti della Pannonia, venuti al seguito di Traiano, Amerigo Tot, il cui nome giustamente ungherese era allora Imre, non si face subito conquistare dal classico, anche se l’antica facoltà incivilitrice di Roma era nel suo sangue, e ne fanno prova le sculture di quel perido in cui la primigenia forza repubblicana è temperata da un’acquiescenza barbarica, da un affiorare, dal fondo della materia, di una urgenza bucolica non ancora intrisa, né forse lo sarà mai, di moduli intellettualistici. Giocarono in ciò un ruolo determinante le radici italiane che erano in lui, sia pure in proporzione infinitesima. Nato in Ungheria, nel 1909, a Fehérvárcsurgó, non lontano dalle rive celesti del Balaton, alle viste della regione collinosa boschiva di Bakony, dove ancora nelle selve ancestrali, rimaste miracolosamente intatte, si aggirano driadi e ninfe e gli ultimati satiri tentano con la loro zampogna i residui miti del tempo, Tot discende, per parte di madre, da un italiano. Quel capomastro marchigiano Nasali andato in Ungheria alla costruzione del castello di Buda, e vi mise tante buone radici da far sì che esista ora un villaggio intitolato al suo nome: Nasali.
Così Amerigo Tot, Amerigo come Vespucci, nel suo lungo pellegrinare approdò a Roma, negli anni Trenta, già armato di un carattere assai simile a quello italiano, anzi romano, se è vero che dal lato fisico il suo profilo di antico legionaro trova puntuali riscontri sui bassorilievi della Colonna Traiana, il volto tagliato in una pietra schietta la figura che si immagina senza difficoltà riverstita di lorica e di elmo. L’aereo approdo della casa al numero 7 di via Margutta, alta sui tetti a scriptore tutte le delizie di Roma, preceduta da altri recari alloggi nella zona di Campo de’ Fiori era stato anticipato da esperienze, che a Tot oggi scultore e cittadino romano, appaiono appena incidentali. Poco o nulla resta del ragazzo che aveva cominicato precocemente a formare e a modellare, con il fango e la certa delle strade, nel suo villaggio ungherese, sotto la cui scorza non di rado affiorava il basolato di Roma, e che a dodici anni già era a Budapest a cominciare i suoi studi artistici alla Scuola Superiore di Arte Applicata. Oggi Tot, in cui un vago accento romano si sovrappone a qualche residua inflessione magiara, ricorda come fosse un sogno oni altra esperienza passata, eppure furono tante e tutte egualmente determinanti per il suo approdo nella romanità, lui che doveva essere chimato a ornare, nel 1952-1953, con il fregio della Stazione Trmini, le nuove vere porte di Roma. Nel 1930, alla ricerca della sua vocazanzione, che era romana, andò in pellegrinaggio per mezzo Europa e studiò da Maillol a Parigi. Dagli inizi del 1931, fu allievo del Bauhaus, a Dessau. Subì le influenze di un Esopo e di un Fedro insieme delle arti figurative, quel Paul Klee che in qualche modo fu pure avvinto da Roma, conobbe l’arte di László Moholy-Nagy, lui anche ungherese, e datano di quel tempo i disegni in cui Imre Tot, non ancora Amerigo, rivelava uno struggente astrattismo, una astralità favolosa lontamente figurativa. Poi, dopo due anni di intenso lavoro nel Bauhaus, Tot si imbarco come mozzo ad Amburgo e così percorse tutti i porti del Baltico: Swinemunde, Kronstadt, Helsinki, Isole Aaland, Stoccolma. Venne quindi il tempo di ídresda dove aderì al gruppo di Otto Dix, professore in quella Accademia. La vittoria del nazismo, il 30 gennaio 1933, lo sorprende e lo fa imprigionare. Nasce qui il periodo più avventuroso della vita di Imre Tot, la sua fuga del carcere, il viaggio incredibile per valli e per monti, a priedi, siempre a piedi, come un legionaro verso la sua vera patria, la patria dell’anima, l’Italia.
Ma l’Italia, per Tot, volve e vuol dire sopratutto Roma. Nei primi anni del suo soggiorno, il periodo mitico della sua romanità, egli conosce la sostanza genuina della capitale, si improvvisa civis romanus. Di giorno studia all’Accademia di Ungheria, e la sera va nelle ostetie e nei ritrovi, incontra Trilussa e Cardarelli, Talarico indigeti. Nascono al clima romano le sue prime sculture che abbiano un significato concluso, anche se Roma sta lì come un miraggio e un pericolo insieme. Dichiarò Tot: « Roma se uno esce dal proprio studio, è di una suggestione fatale e dispersiva, il sole, il cielo, un angolo quattrocentosco, il barocco, le rotonde impronte canoviane, ed è subito sera. » Non dimentichiamo che lo scultore ungherese fu grande amico di Quasimodo, altro innamorato di Roma, con cui trascorse una intera estate a Ravello, al tempo del Nobel tormenato. Tuttavia Roma non è priva di frutti, anzi per Tot è una vera cornucopia. La Cerere capitolina versa nel suo bagaglio di esperienze le forti impressioni plastiche antiche e rinascimentali, i bassorilievi delle colonne e degli archi, e l’artista, per proprio conto, provvede a filtrare il tutto con l’antica rudezza pannone. Venuto come in ostaggio al tempo di un suo personale Traiano, mette a profitto la realità romana con un equilibrio che va dalla figura, sempre più sommariamente sbozzata, quasi dissolta nel vorticante caos primigenio, con gli influsi paesistici, culminanti nella perfetta stesura di uno stato d’animo maschio e iracondo. Nasce così l’individualità romana della scultura di Tot, le sue Baccanti, sfenante nella danza, e i suoi Tori, i bronzetti che paiono tratti da uno scavo avvenirista, sapienti melanges di figurativo e di astratto, dove soprattutto il carattere affiora, o la ferocia animale. Il Lottatore in pensione è quasi fratello gemello del Pugile, alle Terme.
Nel 1937, ormai romanizzato a ogni effetto, Tot vince il concorso internazionale bandito per la statua equestre di Scanderbeg. La sua scultura, negli ambienti romani e in quelli internazionali, si fa notare; ma il cruccio, per chi ormai sia pure sotto dicotomiche spoglie è divenuto un nipote del Canova, sta nel fatto che ancora lo si conosce e riconosce più come grafico e ritrattista. È di quel tempo il suo sodalizio con Guttuso, e nascono una serie di ritratti e di rilievi dalla splendida incidenza rappresentativa. Giuditta (1938) ha la conformazione plastica di una matrona dell’Impero; Celestina (1939) ripete i moduli caratteriali, la psicologia fresca e ingenua di una puella. Nel 1940, dopo l’entrata in guerra, Tot fa subito la parte che gli spetta, dal lato giusto. La fine del conflitto lo trova impegnato come ufficiale paracadutista di collegamento del Comitato di Liberazione Nazionale. E crea, nella vicenda di cuel tempo burrascoso, con la figura giacente della Bella Partenopea (1944-1946), un legame soprasensible con le presenze dissepolte e Ercolano e a Pompei, la riscoperta di una forma sul punto di divenire grezza, romana dei secoli più virili. E se, nel campo dell’arte, siamo nel pieno di un modulo repubblicano modernamente ricreato, nella vita di ogni giorno Amerigo Tot rivela predilezioni per le caratteristiche più spicce di Roma. Al suo carattere, romano di estrazione ancestrale, si confanno i cilibi delle trattorie segrete, i vini dei Castelli. Il suo colore è il rosso del peperone e non più della paprica, sia pure della paprica dolce. Unica concessione agli antichi padri pannoni è la scoperta, tenuta gelosamente segrata, di un lugo dove si cucinano cavoli ripieni, secondo un uso meravigliosamente ungherese, e dove, sorpresa delle sorprese, non si sdegna l’uso magiaro della panna acida, che già piacque a Traiano.
A guerra terminata, Tot continua le sue figure realistiche, venate qua e là da una ispirazione prettamente rinascimentale, il turgido rinascimento romano, che egli riunisce in gruppi variamente esemplari, in cui il movimento obbedisce ai film consequenzali delle colone e degli archi, a un continuum da raffigurazione icastica, celebrativa: Saluto di villaggio (1946), Visita in città (1946). Poi Roma acquista definitivamente il sopravvento nell’arte di Tot, ed è il transito solenne nelle vaste composizioni, nella monumentalità plastica e architettonica, anche se la geometria, le rispondenze esteriori si fanno astratte, e la linea retta, in ogni sua accezione, rivendica i maggiori diritti. E nasce il vastissimo fregio della stazione Termini, metri 128 per 2,50, in una concezione dell’ornato tipicamente romana, dove dichiara lo scultore, « è l’idea dell’antico basolato, il ritmo di una architettura di stampo romano » cui è stato impresso un movimento, un’azione più che moderna, futuribile. Dopo l’ornato a Termini, le opere di Tot sono in gran parte dedicate a Roma. Basti pensare alla Plastica in cemento armato (1959) dell’Automobile Club dell’Urbe, al Rilievo in bronzo del Palazzo delle Foreste (1959), alle Ceramiche del davanzale del palco d’onore (1960) del Palazzo dello Sport, ai Panelli dipinti (1962-1963) della facoltà di chimica dell’Università di Roma, e a tanti altri lavori di cui Roma si fregia. Dice Amerigo Tot della sua arte: « Non so cosa sarebbe stata la mia scultura senza l’influenza di Roma. Ora credo che siamo alle soglie di un nuovo Rinascimento, che sarà di linguggio e di qusto, e dove la figura non bastreà più a rendere il mondo dell’artista. » E intanto guarda il suo studio, dove teste che paiono di scavo, quasi reperti moderni della romanità, toghe geometriche avvolgono imperiali o repubblicane ossessive figure.