Amerigo Tot, scultore romano

(SILVIANO MEROLLE, Il Poliedro, Numero speciale dedicato alla scultura di Amerigo Tot, Roma, 01 April, 1969, pp. 6-12.)

— by SILVIANO MEROLLE

Mai come quando gridi la sua libertà, l'uomo grida alto e della sua vera voce. E se la coscienza della libertà nell'individuo diventa modo di essere e di vita, il grido si impone, espressione potente di personalità inconfondibile. Per Amerigo Tot la libertà, nel suo germe atavico, nella incubazione, nella ricerca, nel grido, sfocia e prende corpo in una produzione artistica la cui squisita genuinità sempre fa fede di nobilità, di tormento e di ri-bellione. Alcuni videro in Tot il nomade, forse quegli stessi che vedono oggi in lui il sedentario. Ma nell'uomo libero non c'è contraddizione; il nomadismo è sete ed anelito di libertà come il sedentarismo è la libertà conquistata che spazia non più per lunghe strade assolate, ma per le vie peregrine di una sensibilità non meno vasta di orizzonti e non meno illuminata. Siamo dunque giunti ad un Tot romano, il vero Tot che non meditata elezione, ma fatale inimitabile processo di intima ricerca, ha felicemente definito. Per me Tot è romano, compiutamente romano. Cosa conta che egli sia nato nella puszta ungherese, che i suoi più drammatici problemi contingenti egli li abbia affrontati in terra teutonica o che egli abbia trovato occasione di meditazione sotto i cieli baltici osservando le ambre ed i gabbiani? Questi non sono che episodi o esperienze singole, seppure di quelle esperienze che in uno spirito sintetico e costruttivo si assommano, si compenetrano, si perdono ordinandosi come pietre di edificio. E man mano che questo lo si ritrova o si costruisce il tormento cede alla distensione, alla serenità ed infine all'amore. Perché Tot ama la sua Roma e se ne sente preso. E' il bisogno delle vaste visioni, della molteplicità delle forme, della perennità dei monumenti, della generosa grandezza di tutto ciò che è romano, che ha attanagliato il nostro Amerigo e lo ha collocato nella nostra collettività custode di glorie e fucina di eventi. E dopo questo discorso si può anche parlare di elezione: pacati di dentro i problemi dello spirito, si aprono le porte ai problemi delle umane relazioni, ai fatti della vita ordinaria intesa nella funzione sociale, o meglio civica. Diciamo dunque che Tot è romano per affinità, italiano per elezione. Ho ancora vivo il ricordo della mia prima visita a Tot. Un quartierino di un ultimo piano della via Margutta ove un certo fresco disordine denunciava un'operosità fervorosa. Non ricordo precisamente a che cosa stesse lavorando quel giorno, mi pare che facesse dei calchi in gesso di alcuni suoi bassorilievi che poi rividi, in bronzo decorare l'atrio luminoso di un pubblico edificio. Ma la mia attenzione si posò subito su una fila di vecchi gessi posti un po' alla rinfusa su una lunga mensola a mezza altezza della parete. — Sono i miei primi lavori —, mi disse additandomi i primi pezzi, e non poteva essere che così. Un certo vago sapore del bel liberty viennese, specialmente nelle capigliature di alcune teste muliebri, un po' leziose, rivelava, osservan-do bene, il suo clima d'origine. Ma la mensola era lunga ed i gesti tanti e man mano che l'occhio scorreva per quel piano, un lento piacevole variare come di una gamma a volte più dolce, a volte un po' sinuosa, fu la mia netta ed immediata sensazione. Man mano nella fila la leziosità si perdeva, l'armonia era sempre più resa da tratti più ampi, da masse prima più equilibrate poi più imponenti. Fin che l'anima (anche l'opera d'arte ha un'anima) affiora sulla materia sempre meno tormentata, come in un prodigio. Ed ecco « Celestina », ecco « Susanna », ecco « Giuditta », ecco figure di profeti e di semidei come riesumati da mondi arcaici, perché rivivano oggi. Ed ecco le figure banali e polemiche ma ugualmente vive del « Conte » e dell'« Inviato speciale » in cui è l'ostinata negligenza che fa di un sasso un soggetto e che fa vivere la materia. Ma dal sasso Tot sa far affiorare non solo la perfetta banalità, ma la più alta drammaticità. Ne « Il sasso della ricostruzione » di Amerigo Tot è la potenza di un racconto realistico ed ap-passionato che geme dall'amorfo primigenio. Ma torniamo alle masse. Che dire di quella sua « Donna accovacciata » che io direi « raccolta »? Voglio dire che la massa più si raccoglie più si esprime, questa massa che non è peso e che non ha bisogno di equilibri. E' forse questa consapevolezza che spinge Tot al monumentale, ad un tempo statico ed ardito. Coincide ciò con la completezza della sua personalità e direi della sua umanità. L'arti-sta vuol partecipare della vita, vuole inserirsi nella dinamica di un mondo che vive in azione la sua era, la sua arte vuole essere partecipe della stessa vita. Per Tot la preziosa statuina da custodirsi gelosamente nella vetrinetta del Museo o del salotto elegante, non ha più ragione di essere. E vediamo il nostro tuffarsi a capofitto laddove è il ferro o il cemento che egli si accinge a foggiare, laddove la sua opera diventa funzionale e non di privato interesse. Sempre la sua maggiore attenzione, per non dire il suo problema tecnico è nell'armonizzare con il più vasto possibile ambiente, rendendone parte la sua opera; ed il suo modellare non è più la statuaria da pantografo, ma il risultato di elementi esterni, e concreti ed estetici, per cuí egli concepisce la sua opera come contributo a più vasta sintesi, a più armoniosa architettura. Oggi si va tanto cianciando di « astratto » e di « figurato » in arte, che sarebbe quasi di prammatica anche per noi toccare questo aspetto per quanto riguarda Amerigo Tot. Ma ne vale la pena? Non sarebbe superfluo, il breve esame che abbiamo fatto del suo temperamento di uomo e di artista? Uno o un altro od un altro ancora dei medi espressivi sono sempre mezzi validi per un artista la cui personalità è talmente forte e definita, che davvero non si perde qualunque sia la via che egli percorra. Né mai lo tormenta l'imbarazzo della scelta, egli « sente » immediatamente la via da prendere perché per lui la scelta è come dramma istantaneo che porta in-sita nelle sue stesse componenti, la sua immediata ed univoca risoluzione. E' come parlare di velocità e di sicurezza di sintesi. Così accanto al frontone della stazione Termini, che non potrebbe essere che quello, e che grida l'astrazione dalle forme ad una moltitudine in moto, noi abbiamo i pannelli del «Tavoliere » (i 10 bassorilievi che adornano il frontone della Cassa di Risparmio di Bari) nei quali l'idillio amoroso fra l'uomo e la terra è nelle figure delicate e potenti di pastori e di villici che sembrano profeti ed apostoli; di donne forti ed amorose che la dovizia e la freschezza delle messi e dei frutti abbevera di sana feconda gioia. Di questi confronti (che poi non sono né divario né accostamento: l'uomo è sempre lo stesso nell'uno e nell'altro modo) ne abbiamo parecchi nella stessa Roma. Così la grande parete nella sede dell'Automobile Club e le decorazioni dell'atrio del Ministero delle Foreste. La prima ridotta, come ebbe a dire Lionello Venturi in una presentazione di Tot alla Biennale di Venezia, alla mera dialettica del vuoto e del pieno, espressione in potenza del movimento inteso come problema; le seconde, e queste non devono esprimere cavalli-vapore, ma peregrino sentimento, sono gruppi così armoniosi nella loro composizione che gli elementi, l'uomo, la donna, il putto, il capriolo, il tronco, l'ascia, la foglia tutti come palpitanti si sposano con semplicità e richiamano alla pace. E potrei andare avanti nei confronti ma io disdegno le elencazioni. Molte opere pubbliche negli ultimi anni in Roma portano il segno di Amerigo Tot; se vi piace andate a scovarvele, le riconoscerete subito. Solo per quello che non troverete perché non opera pubblica desidero aggiungere qualche parola tolta anche questa volta a Lionello Venturi, per quella che è l'arte informale di Tot. E dico anch'io che le sue macchine in bronzo diventano drammatiche appena si ergono verticali, torri tormentate e forti, con le quali egli realizza le sue « proteste » contro la civiltà moderna come in un anelito ài superamento. Il ferro, il cemento, la pietra, il tufo, il bronzo, la ceramica, sono i materiali di Tot. Per il nostro artista anche la scelta del materiale è legata alla funzionalità ed alla stessa genuinità dell'opera. Per Tot il materiale è come il linguaggio con cui il narratore racconta, la nota con cui il poeta canta ed egli sa scegliere i suoi materiali, a seconda di che cosa debba dire, ed a chi debba dirlo. Non ci si meravigli dunque se quando Amerigo Tot dové cantare al mare ed all'altopiano la epicità dello storico sacrificio dei Fratelli Bandiera, giunse a scegliere a sua materia la stessa dura montagna, imponente nella sua massa e che egli vide foggiata a modo che al perenne gioco di luci e di ombre nel sole, spaziasse intorno a memoria delle sane genti di Calabria. Poi nei momenti di siesta, delle sue meditate sieste, quando egli si chiude nel suo studio-fucina ed il sole è di fuori oltre i limiti della sua concentrazione, e lo spazio della sua casa pur ampia, è minuscolo a confronto degli spazi che egli sa vedere; è allora, quando incide i suoi rami, che egli completa pittoricamente il gioco delle masse con le luci e le ombre del chiaroscuro, che risolve la dialettica del vuoto e del pieno come per esigenza dell'egoistica completezza di chi si apparta per meditare e lievitarsi. Questo ci dicono le sue incisioni come quelle del bellissimo album dedicato all'Aretino. E a questo succedersi di raccoglimenti e di esplosioni da questo felice variare di forme e di mezzi, da questo fondersi di visione e di concretezza salta fuori nel livello alto e costante delle sue singole opere quella continuità, quella omogeneità propria dell'uomo che pur sapendo di essersi ritrovato cerca ancora qualcosa nel tormento. Questo il suo modo di continuare nel classico, nel nome stesso della classicità contro un classicismo stantio.